Ligorio, Pirro

Antichità di Roma (Napoli, vol. 3)
iace un delfino, sopra di cui sono dui amori, che giocosamente scherzano, tutto vezzosi, che l’uno è Eros e l’altro Anteros. La Venere stanto impiedi si piega alquanto, tenendosi la mano alla mammella, e l’altra sopra la vulva, riguardando con atto di veder qualche cosa demostra una certa leggiadra onestà, con un volto giovenile e bella in tutte le parti, opera di Cleomene figliuolo di Apollodoro Ateniese, secondo queste parole scritte nella sua base circulare, dove tiene fermati questa dea bellissima così: ΚΛΕΟΜΕΝΗΣ ΑΠΟΛΛΟΔΟΡΟΥ ΑΘΗΝΑΙΟΣ ΕΠΟΙΕΣΕΝ, cioè Cleomene Ateniese la faceva. Bella come nel vero è la modestia dell’antichi, i quali volendo demostrar quanto amassero di far opre perfette, mai volleno confessar che l’opre loro fussero per fenite date fuori, acciò che si potesse ancor amegliorare come non finite, si scusasse l’artefice, onde vi ponevano Faciebat e non Fecit. Ma noi moderni, se bene sapemo assai, non arrivamo ancora alla perfezzione di quei che così scrissero, vi mettemo: io tale la feci, come se fusse qualche perfetta cosa, così cadono sotto della censura degli uomini giudiziosi. [...] Avemo veduto trovare nel fare i bastioni di castel Sant’Angnelo, ove furono gli Hortii Domitii e la Mole di Adriano, alcune imagini
p. 116 [c. 170v (=p. 334)]